Il dolore che non vogliamo sentire

Bentrovati su #civediamosabato, 

Qualche tempo fa ho avuto l’occasione di incontrare  (virtualmente s’intende) nel mio percorso da lettrice Byung-Chul Han grazie a Cristina Aldrighettoni (che consiglio di seguire per questi suggerimenti ma sopratutto per il suo immenso lavoro come shopper di elettrodomestici) che ne parlava sul suo profilo di Instagram @caricovariabile

Byung-Chul Han è un filosofo che ha scritto diversi saggi interessanti ma uno in particolare mi ha molto colpito e di cui oggi vorrei approfondire in questo spazio:  La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite.

Non è scontato uscire da un “incontro” con un autore, con una persona, con addosso l’impressione di aver ricevuto qualcosa di più di un pensiero: una direzione, o meglio ancora, una ferita da abitare. 

Ecco. Abitare. 

La società senza dolore non è solo un libro da leggere. Può essere un varco da attraversare. Un varco che, almeno per me, ha toccato una questione intima e collettiva: la nostra cultura dell’evitamento, la nostra fame di sollievo, la corsa continua a stare meglio — ma mai a stare dentro.

Han scrive: “Il dolore è vincolo. Chi rifiuta qualsiasi circostanza dolorosa è incapace di vincolarsi.” 

E io ho sentito questa frase risuonare in mille microesperienze che ascolto e raccolgo ogni giorno: nei racconti di chi cerca di ‘tornare come prima’, di chi desidera ‘eliminare’ ciò che fa male, come se il dolore fosse un difetto da correggere invece che una soglia da attraversare, ma in cui prima è necessario vivere, stare. Perché prima di partire all’azione è necessario ascoltare quel dolore, dargli spazio, attenzione, aria. Penso al corpo delle donne, ad esempio, al modo in cui la medicina tratta le mestruazioni, il parto, il lutto, il trauma: come un’interferenza. Da contenere, da “gestire”, da silenziare. 

Viviamo in quella che Han definisce “una società palliativa”, una società che anestetizza tutto ciò che è scomodo, faticoso, lento, noioso. 

Dobbiamo essere funzionali, performanti, ottimisti, e se qualcosa dentro di noi inciampa, si spezza, sanguina — dobbiamo curarlo in fretta, possibilmente senza guardarlo troppo.

Ma che cosa perdiamo, esattamente, quando smettiamo di stare nel dolore? Quando tutto dev’essere immediatamente comprensibile, condivisibile, accettabile? Forse perdiamo proprio la possibilità di trasformarci. Perché Han lo dice chiaramente: “Solo il dolore trasforma l’intelligenza nello spirito”. Il dolore ha la capacità di interrompere la narrazione lineare di sé, e proprio in quella frattura nasce spesso qualcosa di autentico, di nuovo, di più umano.

L’esperienza della cura che guarisce, dice Hans, è sempre più rara. La sensazione di essere toccato, interpellato. 

Il problema non è il desiderio di stare bene. Il problema è che abbiamo confuso il benessere con la rimozione sistematica di ogni esperienza sgradita. E così — mentre ci illudiamo di vivere una vita più leggera — ci ritroviamo a vivere in superficie. In una società che ha reso il dolore improprio, sconveniente, fastidioso. Persino nei luoghi del lutto e della cura, c’è fretta di “rimettersi in piedi”, di “andare avanti”. Di ripartire. 

Anche la salute mentale oggi — e lo vedo quotidianamente nel mio lavoro — rischia di essere trasformata in una faccenda di efficienza, una lista di obiettivi da raggiungere. Ma cosa resta fuori, quando cerchiamo solo di funzionare?

Forse il dolore non va funzionalizzato. Forse, come Han suggerisce, va restituito alla sua dimensione simbolica, culturale, relazionale. Perché nel riconoscimento del dolore — proprio e altrui — che possiamo costruire legami profondi. Comunità, e non solo aggregati.

Solo un invito: proviamo a guardare con più attenzione ciò che ci ferisce. A non trasformarlo subito in qualcosa da spiegare, diagnosticare, medicare. A lasciarlo parlare. A lasciarci, anche solo per un attimo, abitare. A farci piangere, a farci intristire. 

Perché forse una società capace di provare dolore è anche una società capace di provare cura.

Ci vediamo sabato prossimo. Sempre qui, sempre senza risposte facili.


Doc 

#civediamosabato è una newsletter per provare a capirci qualcosa in più su cosa stiamo vivendo, su come lo stiamo facendo; per capire qual è il modo migliore per ognuno di noi di vivere ciò che lo circonda.

 

Per iscriverti clicca qui http://eepurl.com/hhtN3r