Buon compleanno 194

Bentrovati su #civediamosabato, 

questa settimana la Legge 194 ha compiuto 47 anni. 

Ogni anno lo diciamo, ogni anno sembra meno scontato poterlo dire. Perché non è solo un numero da calendario, non è una ricorrenza da segnare tra le altre. È un anniversario di sangue, di lotte, di corpi che per decenni sono stati silenziati, abusati, normati da altrə.

Eppure, nonostante tutto, è ancora qui.

Nonostante il modo in cui viene svuotata, ostacolata, ignorata.

Nonostante le percentuali di obiezione che in molte regioni superano il 70%.

Nonostante la propaganda che chiama “tutela della maternità” quello che spesso è solo controllo del corpo femminile.

Nonostante le cliniche che rifiutano, i consultori smantellati, i medici che giudicano, le donne che hanno ancora paura.

Lo abbiamo scritto qualche tempo fa, parlando di I racconti dell’ancella di Margaret Atwood: La distopia funziona perché parte sempre da qualcosa di reale. E quel qualcosa, nel nostro presente, è la sottrazione silenziosa dei diritti. Un centimetro alla volta

Ecco, siamo ancora lì. A misurare quei centimetri. 

A guardare come, in nome della “libertà di coscienza”, si erodono diritti fondamentali. 

A constatare che in alcune parti d’Italia abortire è tecnicamente legale, ma praticamente impossibile.

La 194 è una legge che ha salvato vite. Ma non basta che esista: deve essere accessibile. Applicata. Garantita.

Oggi come allora, l’alternativa è la clandestinità.

Conosciamo i numeri, sì. Ma conosciamo anche le storie. Donne che viaggiano centinaia di chilometri per un’interruzione volontaria di gravidanza. Donne che vengono rimandate a casa perché “non c’è personale”. Donne che subiscono pressioni, colpevolizzazioni, umiliazioni. Donne sole. Ancora.

E non serve un regime totalitario per farci precipitare in una distopia. Basta che si smetta di vigilare. Basta che si normalizzi l’idea che abortire sia qualcosa da “sopportare”, da “tollerare”, da “regolare in modo restrittivo”. Basta che smettiamo di parlarne.

Per questo dobbiamo fare il contrario.

È necessario parlarne. Sempre. 

Con le figlie e con le madri. 

Con chi insegna e con chi studia. 

Con chi ha paura, con chi non ci ha mai pensato, con chi crede che “non lo riguardi”.

Perché il diritto all’aborto non è solo una questione di donne. 

È una tema di libertà collettiva, di civiltà, di giustizia sociale. Che va garantito anche e sopratutto da parte di quellə che “non lo farei mai”. È necessario urlare che siamo qui per garantire il diritto all’aborto di tuttə. 

E può essere necessario farlo anche con rabbia, se serve.

La Atwood scrive “le ancelle non sono poi così lontane, se lasciamo che a decidere siano sempre altri”.

Perché ogni volta che arretriamo su questo, arretriamo su tutto.

Sulla salute. Sul desiderio. Sull’autodeterminazione.

Allora celebriamola davvero, questa legge. Ma non con la retorica. Con l’impegno.

Difendendola nei consultori, nelle scuole, nelle aule parlamentari.

Conoscendola e insegnandola.

Raccontando, ogni volta che possiamo, che cosa ha significato avere accesso a un aborto sicuro.

E anche che cosa ha significato non averlo.

Abbiamo bisogno di parole vere. 

Di coraggio. Di memoria.

Abbiamo bisogno di una generazione che sappia riconoscere il valore dei diritti conquistati.

E che non si faccia abituare all’idea che siano negoziabili. Chi li protegga, che li difenda, che li allarghi. 

Ci vediamo sabato prossimo. Sempre qui, sempre senza risposte facili.


Doc 

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