Essere Plurali

Bentrovati a tuttə,

Questa settimana ho pensato a lungo a una parola che abitiamo tutti, spesso senza nominarla: identità.

Una parola che negli ultimi anni ha cambiato forma, profondità, spazio. Che ha iniziato a chiedere attenzione, ridefinizione, riconoscimento. E che ha fatto – e continua a fare – rumore, proprio perché tocca qualcosa di nostro, qualcosa che ci riguarda.

Se penso a quando ho iniziato a lavorare in ambito clinico il linguaggio rispetto all’acronimo LGBTQIA+  era ancora incerto, più in generale se ripenso anche al linguaggio comune, l’idea stessa di identità di genere

C’erano pochi termini, pochi strumenti, pochissimo ascolto (quasi nullo). 

Le persone arrivavano con un’urgenza chiara e con un mondo attorno che spesso non sapeva nemmeno da dove iniziare.

Poi le parole hanno cominciato a moltiplicarsi. E insieme alle parole sono arrivati gesti, spazi, alleanze, rifiuti. È cambiato il modo di raccontarsi, il modo di chiedere, il modo di esistere. Ma soprattutto: è cambiato il modo di nominarsi.

Abbiamo iniziato a dire “identità non binaria”, “genderqueer”, “transfemministe”, “agenere”, “genderfluid”. Sapevamo che il genere può non coincidere con il sesso assegnato alla nascita. Abbiamo imparato – e continuiamo a imparare – che non tutto ha bisogno di essere definito per essere vero. 

“L’identità non è un’etichetta, ma un processo. Un percorso che cambia con noi. Un prisma in cui la luce entra da una parte e prende mille forme diverse dall’altra.”

Penso che un nodo possa essere proprio qui: l’identità non è una destinazione, ma un movimento. E come ogni movimento, ha bisogno di spazio. Di legittimità. Di non essere messa continuamente in discussione o chiamata a giustificarsi. 

Dagli anni in cui ho lavorato nei servizi pubblici per l’affermazione di genere, ho visto quanto il riconoscimento istituzionale – un nome che cambia, un documento corretto, un pronome rispettato – possa essere una questione di salute mentale. Non “perché le persone trans sono fragili”, come ancora qualcuno pensa con paternalismo. Ma perché non essere visti, non essere riconosciuti, non essere nominati è una forma quotidiana di violenza.

Eppure non basta. Non basta la visibilità. Non basta il modulo corretto. Non basta il nome sul badge. Perché l’identità è una questione di relazione. Possiamo affermare chi siamo solo se dall’altra parte c’è qualcuno disposto a restare, ad ascoltare, a disimparare qualcosa per far spazio.

Oggi l’identità di genere è più visibile che mai. Ma non è mai stata così fragile la possibilità di viverla con serenità. Viviamo in un tempo in cui il linguaggio cambia, ma le strutture restano rigide. In cui si parla di “ideologia del gender” come se riconoscere la complessità fosse un attacco e non un atto di cura. Ancora: parliamo di “ideologia del gender” come fosse una cosa vera e non propaganda politica. 

E allora mi domando: quante identità restano in apnea ogni giorno, perché non trovano l’aria giusta in cui respirare?

Scrivere questa newsletter oggi non è solo un esercizio di riflessione. Vuole essere un piccolo atto politico, affettivo, collettivo. È ricordare a chi legge – chiunque tu sia – che esistere come sei non è un errore, non è un eccesso, non è una fase. È un diritto.

Che i nostri corpi, le nostre parole, le nostre storie siano accolti per quello che sono: plurali, in evoluzione, a volte contraddittori. Ma profondamente umani.

Ci vediamo sabato prossimo. Sempre qui, sempre senza risposte facili.


Doc 


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