L’Anniversario che ci riguarda tuttə

Bentrovati a tuttə,

questa settimana un libro che parla di madri, padri e ferite familiari ha vinto il Premio Strega. Un libro che non celebra la famiglia, ma la mette a nudo. La interroga, la incrina. La attraversa non con nostalgia, ma con urgenza.

il familiare, oggi, è ovunque: nei discorsi pubblici che esaltano la famiglia “naturale”, nei bonus figli, nei consultori che chiudono, nelle retoriche della “natalità da difendere”.

Eppure, nessuno sembra voler vedere quanto quella famiglia possa anche fare male. Quanto possa ferire, silenziare, schiacciare.

La contemporaneità ci mostra una tensione: abbiamo sempre meno reti, sempre meno welfare, sempre meno futuro. E così, ci ritroviamo costrettə a far ricadere tutto su un’unità affettiva — la famiglia — che, idealizzata e sovraccaricata, implode.

Ci insegnano che la famiglia è rifugio. Ma per molte persone è anche il luogo in cui si è imparato a stare zittə, a sopravvivere, a non disturbare.

Il luogo in cui l’amore ha avuto il sapore del controllo, del dovere, della paura, della violenza. Della disumanizzazione, dell’umiliazione, del gelo. Il luogo in cui si è imparato a difendersi dalle emozioni, proprie e altrui. Dove non si abbraccia, non si ride, non si gioca. 

Il luogo da cui si è dovutə fuggire per salvarsi.

Eppure, continuiamo a parlarne solo come “valore”. Mai come sistema. Mai come potere.

Il familiare è ovunque: nelle scelte che facciamo, nei legami che costruiamo, nei silenzi che manteniamo. È il modo in cui ci relazioniamo agli altri, il modo in cui gestiamo il dissenso, il modo in cui ci concediamo libertà o ci neghiamo possibilità.

Nessun rapporto è neutro. Ogni trasformazione che accade dentro una famiglia — una separazione, una malattia, un gesto di ribellione — si riverbera su tuttə.

Eppure facciamo ancora fatica a parlarne in modo politico.

Come se fosse un tabù. Come se “mettere in discussione la famiglia” significasse attaccare l’amore.

Non è così. Significa, semmai, iniziare a distinguere tra cura e annullamento. Tra memoria e imposizione. Tra amore incondizionato e senso di colpa. 

Il libro premiato questa settimana ci ricorda che c’è un altro modo per raccontare la famiglia: da dentro, ma senza farsi stritolare. Un modo che non cancella la complessità, che non idealizza, che non chiude tutto in uno slogan.

Parlare di familiare significa parlare di scuola, di salute mentale, di aspettative generazionali, di autonomia, di economia. Significa parlare di sentimenti quanto di lavoro. Di servizi quanto di educazione. 

Significa dire che se mancano gli strumenti per crescere in libertà, il familiare non è radice, ma catena.

Per questo oggi più che mai dobbiamo aprire lo spazio del racconto.

Raccontare anche le famiglie che si rompono. Quelle che non hanno avuto cura. Quelle da cui si è imparato a scappare.

Solo così possiamo immaginare relazioni diverse. Non perfette, ma vere. 

Relazioni che non si fondano sull’obbligo di rimanere, ma sulla libertà di scegliere. Famiglie che creiamo al di là dei legami di sangue. Famiglie di cure, famiglie scelte con amore, famiglie ricche di somiglianze e diversità, di pluralità e collettivo. Famiglie che abbracciano, che scaldano, che aprono gli occhi e alleggeriscono cuori e teste. Famiglie che ci somigliano nei valori e non nei tratti del viso. 

Perché il familiare ci plasma, sì. 

Ma non può decidere tutto di noi.

E allora vale la pena chiederci:

cosa può diventare famiglia, se smettiamo di volerla salvare – così com’è – a ogni costo — e iniziamo, invece, a immaginarla?

Cosa accadrebbe se smettessimo di considerare la famiglia da cui proveniamo un rifugio naturale, e iniziassimo a pensarla come una costruzione politica, da reinventare ogni giorno?

Ci vediamo sabato prossimo. Sempre qui, sempre senza risposte facili.


Doc 


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