Non sono fragili. Sono soli.

Bentrovati a tuttə,

ci sono parole che fanno comodo.

“Fragile” è una di quelle.

Suona gentile, compassionevole, quasi poetica.

E invece appare come una trappola.

Perché quando diciamo che gli adolescenti sono “fragili”, stiamo scaricando su di loro la responsabilità di un dolore che abbiamo costruito noi. Pezzo dopo pezzo. 

Li chiamiamo fragili per non ammettere che sono soli.

Soli nelle famiglie che non parlano. Le nostre. 

Soli nelle scuole che non ascoltano. Le nostre. 

Soli in una società che li tratta come adulti quando sbagliano e come bambini quando chiedono spazio. La nostra. 

Nel suo nuovo libro Adolescenti interrotti, Stefano Vicari lo scrive senza giri di parole: il disagio psichico dei ragazzi non è una questione privata. È una responsabilità collettiva.

Il malessere cresce, e noi, come adulti, ci limitiamo a diagnosticarlo — quando va bene. Più spesso lo neghiamo. 

Lo ignoriamo. 

Lo riempiamo di retorica. Lo giudichiamo. 

Attribuiamo a quel trend su TikTok o all’influencer di turno le challenge sul peso. 

Ma voi li avete mai incontrati quei ragazzi? Ci parlate li ascoltate? 

Per chi fa il mio lavoro e si occupa di famiglie e adolescenza tutto appare molto limpido: 

A volte sono figli di chi mi scrive. A volte siedono nei mio studio. A volte sono al di là dello schermo chiusi in camerette buie. 

Sempre più spesso sono voci senza nome dietro una domanda: “Cosa c’è che non va in me?” 

Hanno 10, 13, 15, 17 anni.

Non dormono. Non mangiano. Si tagliano. Vomitano.

Non perché sono “problematici”. 

Ma perché non trovano un linguaggio adeguato per farsi sentire, ad esempio. 

E mentre i numeri crescono — accessi ai pronto soccorso per crisi d’ansia, disturbi alimentari in età sempre più precoce, tentativi di suicidio — noi, come sistema, che facciamo? 

Tagliamo i fondi alla salute mentale.

Lasciamo le scuole senza sportelli psicologici.

Smantelliamo i consultori. (Una mia fissa eh questa sui consultori, me lo ha detto una paziente questa settimana). 

E poi ci indigniamo. Sui social. 

Poi ci sorprendiamo. Sempre sui social. 

Vengono usate parole come “emergenza giovani” — come se non sapessimo da anni che stavamo arrivando qui, perché questo treno lo abbiamo costruito noi con tanto di disagio alle pareti. 

Il libro di Vicari, come tanti del suo genere, ci mette davanti a un fatto semplice: le adolescenze non si interrompono da sole. 

Le interrompiamo noi.

Con la nostra assenza.

Con il nostro moralismo.

Con la nostra incapacità di creare spazi dove unə ragazzə possa sentirsi accolto anche quando è scomodo, incoerente, arrabbiato, queer, confuso, in crisi.

Ma qui non si parliamo solo di adolescenti.

Si tratta del tipo di società che vogliamo essere. (ho paura di sapere già le risposte alle domande che seguono)

Una società che punisce chi è vulnerabile, o una che costruisce reti per chi cade?

Una società che insegna solo a competere, o una che educa all’ascolto, al fallimento, al limite?

C’è una scena che mi ha colpito, leggendo Vicari: quella di una ragazza che arriva in ospedale dopo un gesto autolesivo e, alla fine del colloquio, dice sottovoce che per la prima volta ne parla con qualcuno e non si sente sbagliata.

Ecco, questo è uno dei punti. 

Non si tratta di erogare prestazioni. Si tratta di non farli sentire sbagliati.

Di dire a quellə adolescenti che possono stare nel mondo anche se non hanno già capito chi sono.

Che non devono essere forti. Che non devono essere invincibili. Che non devono essere prestanti, belli, felici. 

Che qualcuno li vede. Che c’è posto anche per loro.

Ma questo “qualcuno” non può essere solo il singolo psicoterapeuta in corsia. 

È necessario che sia la scuola, il quartiere, il consultorio, la politica, la comunità.

Deve essere tuttə noi.

Io non credo alla retorica dell’adolescenza come “età difficile”.

Credo che siamo noi a renderla difficile.

A furia di non parlare di corpo, di desiderio, di paura, di rabbia, di sessualità. 

A furia di pretendere prestazione invece di relazione. Non abbiamo creato una bussola per comprendere e leggere la mappa della comunità che li circonda e poi pretendiamo anche che siano più capaci di noi adulti di abitarla. 

E allora oggi, qui, la domanda è questa:

quanta parte del dolore degli adolescenti ce lo portiamo addosso anche noi, come adulti che hanno scelto di non vedere?

Non serve una risposta. 

Serve uno sguardo più onesto.

E un impegno: educare senza giudicare, ascoltare senza correggere, esserci senza controllare.

Ci vediamo sabato prossimo. Sempre qui, sempre senza risposte facili.


Doc 


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