Il tempo vuoto. Il tempo che non c’è.

Bentrovati a tuttə,

pensavo questa settimana in cui nelle stanze di terapia si comincia a dire “ci vediamo a Settembre” che Luglio ha una sua lingua. 

Fatta di calore, condizionatori, ventilatori, angoscia, di sabbia appiccicata alla pelle, stanchezza, docce serali. Di bambini che girano in costume per casa e di genitori che contano i giorni che mancano alle ferie come chi attraversa un deserto con poca acqua.

Per molti, l’estate è una promessa, un obiettivo, un “pensiero felice”: di riposo, di leggerezza, di tempo vuoto. 

Un tempo finalmente nostro. 

Lento. Conquistato dopo la fatica dell’anno lavorativo. 

Spoglio di riunioni, sveglie, impegni a incastro. 

Un tempo che ricorda — o almeno vorrebbe ricordare — che non siamo solo prestazione. 

Che possiamo anche semplicemente essere.

Stare.

Ma questa promessa non vale per tutti. 

Ne parlavo qualche giorno fa con un paziente:

per una parte silenziosa ma importante della popolazione, l’estate è una stagione che tenderei a definire stonata.

Una pausa che non arriva mai. 

Una prova di resistenza. Di forza. 

Un esame di “classe”. 

Ci sono adulti, bambini che restano in città, spesso troppo calde, prive di verde, di parchi ombreggiati, di alternative pubbliche gratuite. 

Quei bambini restano con i nonni — se ci sono. Con genitori che non possono permettersi le ferie — o non possono permettersi di perdere giornate lavorative. 

Adulti soli, che non fanno che lavorare, alternano lo sbuffo in ufficio, con lo sbuffo serale. Che insieme ad una sparuta minoranza prova a vivere un tempo “libero” in queste città bollenti che offrono davvero poco da un punto di vista culturale se non appartieni ad una certa classe sociale. 

Ci sono spesso madri sole, che usano tutte le loro energie per portare a casa da mangiare e provare a garantire ai figli, alla famiglia almeno l’energia di un ventilatore acceso.

Tra le tante – troppe – mancanze di questo paese manca una grammatica pubblica dell’estate. 

I nidi e le scuole chiudono, com’è giusto. Non sto qui a far la conta dei giorni che in Europa i ragazzi frequentano o meno scuola. Penso a loro, ma anche agli insegnanti. Così com’è pensata oggi la scuola qualsiasi figura la abiti ha bisogno di una pausa. 

Ciò che non funziona è ciò che viene (o meglio, non viene) dopo. 

L’estate sembra ancora organizzata su un presupposto classista: che tutte le famiglie abbiano una casa in montagna o un ombrellone prenotato per tutto agosto. Che esista sempre un nonno, una baby-sitter, una “rete” pronta ad attutire il colpo.

Ma non è così.

E mentre fioriscono i post sui benefici del tempo lento — ed è vero, ne abbiamo bisogno — mi chiedo: chi può davvero permettersi di rallentare?

Chi può permettersi di non correre per trovare una sistemazione ai figli, una soluzione, un centro estivo (spesso costosissimo), una mano che sollevi dal carico? Chi può scegliere il tempo vuoto, quello vero, ristoratore invece di subirlo?

Perché il tempo vuoto, se è obbligato, se è lasciato lì senza contesto, senza cura, senza comunità, non è pace. 

È abbandono.

E i bambini, soprattutto loro, lo sentono.

Sentono la noia che non crea, ma toglie.

Sentono il caldo che non è estate, ma prigione. Sentono la solitudine dei genitori, il caldo, l’oppressione, la fatica. 

Sentono che non c’è nessuno che pensi a loro, che li guardi, che li includa in una programmazione sociale che non sia solo per chi può pagare.

Sappiamo tutti quanto sia importante il tempo “non-utile”, quello che non produce ma nutre. Ma perché questo tempo sia davvero fertile, ha bisogno di essere abitato, non solo atteso e desiderato. 

Ha bisogno di relazioni, spazi, accessibilità. Ha bisogno di un’idea di infanzia che non si esaurisca nel calendario scolastico, ma che venga riconosciuta come parte viva, viva sempre, del tessuto sociale. Come terreno fertile su cui seminare i fiori del giardino di domani. 

E allora l’estate si rivela per quello che è: uno specchio che riflette il sistema.

Un sistema dove il diritto al riposo non è universale.

Dove il tempo lento è un privilegio e non una scelta collettiva.

Dove chi resta, spesso resta indietro.

E mentre leggiamo articoli sui benefici del digital detox, del silenzio, della lentezza, io continuo a pensare a chi non ha nemmeno una stanza fresca in cui fermarsi.

A chi guarda il cielo di luglio dal balcone di un condominio senza ascensore.

Forse la domanda non è solo come ci prendiamo cura del tempo,

ma di chi ci prendiamo cura quando quel tempo si svuota.

E allora:

a chi è davvero concesso il lusso di prendersi una pausa?

Ci vediamo sabato prossimo. Sempre qui, sempre senza risposte facili.


Doc 


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