Che tutto cambi perché nulla cambi

Bentrovati a tuttə,

questa settimana il Senato ha approvato all’unanimità una legge che introduce il reato autonomo di femminicidio, punito con l’ergastolo.

Un gesto simbolico. 

Un cambio di passo (dicono). 

Un segno importante, (aggiungeranno).

Ma la domanda è: importante per chi?

Per le ragazze che a 14 anni vengono uccise da un ex che non accetta un “no”?

Per le donne che ogni giorno attraversano una relazione dove il potere è “travestito” da amore?

Per chi prova a denunciare e non viene creduta? Per chi neanche denuncia, perché sa già come finirà?

No. Ovviamente No. 

Questa legge, così com’è, serve più a pacificare le coscienze che a cambiare la realtà.

Una legge che punisce, ma non protegge.

Che condanna, ma non previene. 

Che parla di colpe individuali (qualche spruzzata di retaggio cattolico), ma non tocca mai la struttura.

Il femminicidio non nasce in un cortile oscuro.

Non è l’errore di un uomo malato.

È il prodotto diretto di una cultura che insegna a possedere, non ad amare.

Che educa i maschi a essere forti, vincenti, inscalfibili — che quando perdono il controllo, esplodono: è “sempre stato così”. 

Che insegna alle donne a dire “sì”, e anche “si signore” diceva mia nonna. 

È questo il patriarcato.

Un sistema che ha radici profonde, e che sopravvive benissimo anche dentro le leggi più progressiste, se non le accompagna un cambiamento reale.

Quando diciamo “ergastolo per il femminicidio” e pensiamo che basti, stiamo scaricando tutto sul singolo carnefice. Facile, comodo, molto politico. 

Ma il punto non è solo chi uccide. È cosa abbiamo costruito attorno a quella violenza.

È cosa abbiamo taciuto prima. Cosa non abbiamo modificato: 

Le battute sessiste.

L’educazione sessuale nelle scuole.

Le giustificazioni del controllo come “gelosia”.

L’idea che l’amore salvi tutto.

L’idea che i “casi isolati” non ci riguardino tutti. 

Siamo sempre pronti a indignarci davanti alla morte. 

Ma cosa facciamo mentre la violenza cresce, giorno dopo giorno, in silenzio?

C’è anche un’altra cosa che continuiamo a sottovalutare: le storie che raccontiamo.

I miti che continuiamo a ripetere.

Le favole che lasciamo agire sottopelle.

Perché “si è sempre fatto così”.

Perché non basta dire “stop alla violenza” se poi insegniamo che l’amore vero è quello che ti salva da tutto. 

Se continuiamo a proporre narrazioni dove lui rincorre, lei si lascia conquistare.

Lui insiste molto, moltissimo e lei si convince, “stremata”

Lui la controlla e lo chiama protezione, così tanto che poi anche lei la chiama “protezione”.

Lei accetta, perdona, sacrifica. AMA. 

Lui agisce. Lei subisce.

Lui ha in mano il potere, lei debitrice e così vissero “felici e contenti”. 

Nel libro Maestre, Carolina Capria lo scrive molto esplicitamente :


“Non bisogna cancellare le storie che ci paiono vecchie e anacronistiche, quindi, ma lavorare affinché non siano le uniche, affinché i punti di vista si moltiplichino e ciascuna bambina o ragazzina possa capire a quale eroina guardare con ammirazione.”

Ecco. È qui che si gioca una parte importante della prevenzione: nelle storie che offriamo. Non solo nelle aule dei tribunali, ma negli scaffali delle biblioteche, nei copioni delle serie TV, nei cartelloni pubblicitari, nei testi scolastici (fantascienza lo so) nelle playlist adolescenziali.

Serve un’epica nuova. Serve che le eroine non siano solo quelle che sopportano. 

Serve che le favole finiscano anche con “lei ha detto basta e se n’è andata per essere felice”, non sempre con un bacio che “sveglia” e salva tutto.

Serve che gli eroi imparino ad ascoltare, non solo a combattere. 

Perché cambiare cultura significa anche cambiare narrazione. 

E cambiare narrazione significa cambiare possibilità. Direzioni. Alternative. 

Non credo serva una una legge che arrivi dopo la morte.

Credo sia necessaria una società che faccia di tutto per evitare quella morte.

Una cultura che renda impensabile che qualcuno possa uccidere per possesso.

Un linguaggio che non normalizzi, non minimizzi, non infantilizzi.

Non mi interessa sapere che l’assassino sconterà l’ergastolo. Abbiamo bisogno di sapere come società che quella ragazza non sarà la prossima.

E allora la domanda è questa:

quanto siamo dispostə a cambiare davvero, se ci serve sempre una morte per accorgerci che abbiamo sbagliato tutto?

E quante storie siamo dispostə a riscrivere, se vogliamo davvero cambiare il finale?

Ci vediamo sabato prossimo. Sempre qui, sempre senza risposte facili.


Doc 


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