Bentrovati a tuttə,
ieri ho provato a chiudere un cassetto. Non funzionava. Spingo, lo sbatto, vado di corsa non ho tempo di fare con calma. Forzo la leva, lo scasso. Si rompe, senza clamore ma fra crack e rimane lì, fermo e rotto, un difetto banale, chiaramente, ma il cassetto è il mio e il mio cassetto è rotto, anzi, il mio cassetto l’ho rotto proprio io.
E mi sono chiesta: posso sentire questa irritazione, questa stanchezza? Quando nel mondo i bambini saltano in aria? Quando gli schermi fanno a gara con le nostre coscienze? Può essere davvero un problema il mio cassetto rotto?
E ho pensato alla sensazione di cui parlava un mio collega qualche tempo fa in supervisione ovvero la sensazione di pensare che “se parlo del mio malessere, mi sentiranno egoista.”
Sembra quasi sia meglio stare zittə, ingoiare tutto, lacerarsi in silenzio — come se solo il bordo del mondo che crolla fosse autorizzato a fare rumore.
(Chiaramente non voglio minimamente paragonare il mio cassetto rotto a chi muore sotto le bombe sia chiaro non mi verrebbe mai in mente ma meglio esplicitarlo).
Vorrei però oggi parlare di un allenamento che non si fa più quello della sospensione:: spegnere il giudizio, spegnere la censura, accendere lo sguardo su chi è silenziosamente in pezzi.
E osservarlo.
Il male del mondo non si cancella con l’autocensura.
La responsabilità personale non è mettere in secondo piano la propria sofferenza, ignorarla ma saperla raccontare con lucidità, ricordando che anche quella può essere politica. Darle valore, partire dalla propria ed allargare lo sguardo.
Non tutti viviamo nei conflitti attuali, che si consumano in tempo reale su schermi e social.
Ma fare finta di non vedere i nostri quartieri abitati dagli stessi fantasmi — sfratti, solitudini, fame affettive — significa tradire una forma diversa, più lenta e invisibile, meno fotografata ma ugualmente urgente, di violenza quotidiana.
Quando si vivono giganteschi e tragici momenti di dolore come una pandemia, un incidente, un grave lutto, una brutta separazione, una guerra.
Dopo qualcosa che ci spezza — individualmente o collettivamente.
Dopo il dolore, ci sarà un prima e un dopo?
La retorica dice sì.
Usa spesso una parola che detesto ormai la resilienza, ma anche il cambiamento, la crescita.
Come se il dolore fosse una scuola.
Come se bastasse attraversarlo per uscirne più profondi, più gentili, più svegli.
Ma la verità è che il dolore non insegna niente, se non lo guardi.
Il dolore ti svuota, ti rompe, ti taglia. E se non ci lavori, ti indurisce.
Ti chiude. Ti spegne. Ti peggiora.
Quindi no, non diventeremo migliori solo per il fatto di aver sofferto.
La sofferenza non è una promozione, è un bivio.
Se dopo il trauma non parliamo,
non pensiamo,
non riflettiamo,
non ci teniamo compagnia,
non costruiamo linguaggi,
non chiediamo aiuto,
non ci mettiamo in discussione,
non proviamo a guardare gli altri davvero —
allora sì, usciremo peggiori.
Saremo più cinici.
Più sordi.
Più veloci a giudicare e più lenti a capire.
Più spaventati e meno capaci di amare.
Non impariamo nulla dal dolore solo per il fatto di provarlo, se non decidiamo di farlo.
Non c’è niente di automatico, niente di garantito.
Non basta vivere qualcosa di brutto perché quella cosa ci renda migliori.
Se non elaboriamo il dolore, lo ripetiamo.
Se non lo attraversiamo, lo trasmettiamo.
Se non lo curiamo, lo riversiamo sugli altri
E in questo tempo che brucia, l’urgenza non è scegliere tra “parlare del mondo” e “parlare di sé”.
L’urgenza è dire: ho solo questo tempo — ferito, declinato, impuro — e vale comunque la pena usarlo per pensare insieme, per essere voci contro un banalizzato silenzio morale.
Se il mondo ti impone indignazione, fate attenzione: l’indignazione diventa facile. L’indignarsi di te che indichi che sei in pezzi davanti alla devastazione è una dinamica consolidata: il dolore dell’intensità a tutti i costi, impone silenzi su altro.
Perciò mi chiedo:
di che mondo abbiamo bisogno, se non sappiamo creare spazio anche per le nostre stanze rotte?
Se non riusciamo più a sentire, parlare, raccontare il nostro cassetto che chiude male?
Forse è da lì che passa ogni umanesimo. Quel gesto minuscolo di nominare ciò che ci fa male, mentre il mondo muore di dolore. Quei minuti — che chiamiamo eccezione, ma diventano resistenza quotidiana — sono ciò che ci salva dalla catastrofe comune.
ll mio cassetto chiude male. Ogni tanto si apre da solo. È spaccato e mi romperà le calze ogni volta che ci passerò vicino, se non lo sistemo.
Dentro ci sono domande, rabbie, dolori non ancora pronti per essere raccontati.
Ma intanto fuori, il mondo brucia.
E io provo, ogni tanto, a raccontare lo stesso.