Il prezzo della dignità

Bentrovati a tuttə,

qualcunə, dalle stanze delle istituzioni, ha liquidato questi giorni chiamandoli “weekend lungo”.

Un modo elegante per dire: chi sciopera non lavora; chi manifesta cerca vacanza.

Eppure qui non c’è stata nessuna vacanza. C’è stato tempo sottratto al salario, turni persi, treni fermati, litigi in famiglia, anche organizzazione familiare complicata. 

C’è stata fatica. costo. scelta.


Scioperare, manifestare, esporsi non è mai comodo. Non è mai gratis. 

Chi lo fa, lo fa perché crede che un bene maggiore valga più del proprio quieto vivere. Perché sa che la democrazia si nutre anche di conflitto: del diritto di dire no, di chiedere di meglio, di costruire alternative.

Chiamarlo “weekend lungo” serve a svilire, sporcare questo gesto, a renderlo frivolo. 

A farlo diventare capriccio. 

E invece appare come responsabilità politica.

Andando al corteo di Roma del 3.10 ho pensato tanto ai bambini. Ai nostri, a quelli palestinesi. 

Ho riflettuto molto su come spiegare che in piazza ci sono persone che rinunciano ad una parte di stipendio per diritti, dignità; che, a migliaia di chilometri, altri bambini se sopravvivono sotto le bombe, rimangono senza acqua, senza scuola, senza casa, spesso senza famiglia. 

Come spieghi il conflitto israelo- palestinese a chi ti chiede “perchè lo fanno è come se noi dicessimo che Parigi è italiana e mandassimo lì delle bombe”. 

Non ho risposte perfette. 

Ho però una bussola: insegnare l’empatia, sempre. 

Non l’empatia tiepida dei buoni sentimenti, di quella non ci facciamo nulla, ma quella che prende posizione: i diritti civili e i diritti umani non sono un’opinione, sono

linee di difesa dell’umanità. Demarcazioni di umanità. 

E l’umanità deve vincere, sempre.

Vuol dire quindi raccontare che ogni vita vale; che nessun bambino dovrebbe pagare il prezzo delle decisioni dei potenti; che un corteo pacifico che chiede dignità, umanità, rispetto non è un disturbo dell’ordine: è ordine civile. 

Se sei tra chi ha più tutele, più soldi, più tempo, più voce, la regola è semplice: fai un passo in più.

Se puoi, sciopera. Se puoi, donati. Se puoi, accompagna. Se puoi, diffondi. Se puoi, stai accanto.

Il privilegio non è una colpa, ma è un obbligo di cura. 

Una mano in più da tendere, uno strappo in meno da chiedere a chi è già al limite.


Questo venerdì, nel corteo, ho visto madri con i passeggini, nonni con il bastone, bambini sfilare di fianco alle maestre, studenti con i cartelli storti, lavoratori con la busta paga più leggera. 

E ho pensato a chi ci ha portato fino qui.

Alle donne che hanno lottato perché potessimo scegliere. Ai partigiani che hanno immaginato una Repubblica antidoto al dominio. 

A chi ha manifestato prima di noi, pagando prezzi enormi perché oggi, noi, potessimo camminare in pace, a voce alta, senza paura (o quasi). 

Dire grazie non basta, ma è un inizio. Il resto è impegno: trasformare la gratitudine in pratica quotidiana.

Perché la libertà non è il giorno del corteo. La libertà è tutto quello che facciamo dopo: a scuola quando spieghiamo i diritti senza relativismi; al lavoro quando non giriamo la testa davanti a un abuso; in casa quando insegniamo che “no” è una parola intera, e che si afferma con serietà. 

Ai bambini possiamo dire questo: oggi alcune persone hanno rinunciato a qualcosa di loro per ottenere qualcosa per tutti. 

Hanno perso soldi, ore, comodità. 

Hanno scelto di esserci. 

E se qualcuno ha detto “weekend lungo”, hanno risposto con i piedi, con i cartelli, con la pazienza. 

Possiamo dire che l’empatia si impara: non scorrendo immagini, ma stando nelle cose, condividendo peso e tempo, provando a capire senza cancellare la differenza.

Possiamo dire che i diritti non sono per sempre e che vanno riconquistati con gentilezza e ostinazione.

Possiamo dire che la mano più libera va davanti: ad aprire il varco per chi arriva dopo.

Umanità non è una parola astratta: è un pranzo sospeso, una cassa di resistenza, un passaggio in auto, una lezione fatta bene, un sindacato che non molla, un consultorio che ascolta, un giornale che sceglie le parole giuste. Una barca che parte alla volta del peggior tratto di mare esistente. 

So che ogni piccola rinuncia personale può diventare una grande possibilità collettiva.

E allora, quando ci dicono “weekend lungo”, rispondiamo con la sola grammatica che riconosciamo: tempo breve per noi, tempo lungo per i diritti.

È faticoso, è costoso, è imperfetto. Ma è la democrazia che si allena.

Ci vediamo sabato prossimo. Sempre qui, sempre senza risposte facili.

E urliamo forte FREE FREE PALESTINE 🇵🇸

Doc 

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