Bentrovati a tuttə,
c’è una verità che la clinica racconta senza giri: la gravidanza, la nascita, la cura di un neonato mettono a nudo le contraddizioni di un Paese. Quando un corpo si trasforma — quando contiene, nutre, allatta, si spaventa — vediamo ciò che abbiamo costruito intorno ai corpi: reti o vuoti. E da lì si capisce se siamo capaci di custodire diritti o soltanto di dichiararli sui comunicati stampa.
La perinatalità è una lente formidabile. Mostra quanto siano fragili le politiche che ignorano la cura: consultori lontani, liste d’attesa inaccettabili, permessi parentali risicati, servizi sanitari territoriali sottodimensionati. Mostra anche quanto siano ideologiche le narrazioni che definiscono chi è “idoneo” a essere genitore e chi no. Non è un’astrazione: è proprio la vita di chi cerca di diventare madre o padre, di chi si affida alla PMA, delle famiglie omogenitoriali che ancora devono dimostrare il loro diritto al riconoscimento.
Da un punto di vista psicologico, la trasformazione perinatale è un momento di vulnerabilità e potenzialità insieme. La donna in gravidanza — e il partner, e la famiglia — entrano in un processo che richiede ascolto, sostegno, tempo. Quando questi elementi mancano, il rischio non è solo clinico (ansia, depressione perinatale per dirne due a caso), è politico: una generazione di genitori che si sente abbandonata rinuncia a chiedere aiuto, si isola, normalizza la violenza della precarietà. La cura indebolita diventa terreno fertile per diseguaglianze più profonde.
E qui entra la questione dei diritti: dire che la salute riproduttiva è un diritto non basta. Serve che sia reale nell’accesso. Serve che le famiglie LGBTQ+ non debbano lottare per esistere sulla carta. Serve che la maternità non sia categorizzata secondo canoni morali e biologici riservati a pochi. La politica dice “diritti”, ma se le istituzioni non costruiscono percorsi chiari — riconoscimento dei genitori, tutela economica, servizi territoriali — quei diritti restano parole vuote. E ad oggi la politica se può mettere ostacoli tira su muri.
La clinica insegna anche che il trauma non è solo un evento, ma la mancanza di risposte. Nascere in un paese dove i consultori chiudono significa ereditare una fragilità istituzionale. Farlo divenire un mito familiare. Significa che la prima cura, che dovrebbe essere pubblica e collettiva, diventa privata e intermittente. Nel frattempo però, le famiglie “non convenzionali” trovano soluzioni comunitarie, reti scelte, forme di mutualismo che però non dovrebbero rimpiazzare lo Stato. È qui che la responsabilità politica diventa evidente: se lasciamo la cura al mercato, alla sanità privata, normalizziamo l’ineguaglianza.
La perinatalità può essere un test di civiltà: se una società non regge il primo abbraccio, non regge nulla. E la questione non riguarda soltanto chi mette al mondo figli: riguarda come un luogo risponde alla fragilità del corpo umano. Parlo di congedi che consentano ai padri e alle madri di essere presenti; parlo di consultori che siano presìdi reali di prevenzione; parlo di educazione alla genitorialità nelle scuole, non come optional, ma come diritto civico.
E parlo, ancora, di comunità LGBTQ+. Quando lo Stato differisce o rallenta il riconoscimento, manda un messaggio: alcuni corpi sono meno protetti. È una ferita culturale che si misura nelle pratiche quotidiane: accesso alle cure, moduli anagrafici, sostegno psicologico libero da pregiudizi. Le famiglie omogenitoriali non chiedono privilegi; chiedono ciò che a chiunque spetta: visibilità, tutele, servizi.
Cosa possiamo fare, concretamente?
Butto giù le prime tre cose che mi vengono in mente, piccole ma decisive.
1 – pretendere servizi pubblici capaci di ascoltare — consultori presenti, sportelli psicologici nelle maternità e nelle scuole, centri per la genitorialità diffusi.
2 – tradurre il riconoscimento formale in pratiche quotidiane — moduli semplici, procedure chiare, personale formato.
3 – coltivare comunità di cura che non sostituiscano lo stato ma lo spingano a fare meglio: vicinato, gruppi di mutuo aiuto, sindacati che si occupino anche di tempi di vita.
Una delle cose che la clinica perinatale mi ha insegnato è che il benessere perinatale è contagioso, è un investimento.
Genitori supportati fanno figli più sereni; bambini curati diventano cittadini meno fragili.
La cura non è un costo da ridurre: è una risorsa da moltiplicare.
Che tipo di Paese vogliamo essere per chi nasce adesso? Se la risposta è “un luogo che protegge”, allora il prossimo passo è chiaro: non basta alzare la voce in piazza (anche questo è necessario), bisogna pretendere che la voce si traduca in servizi, in leggi che funzionano, in pratiche che includono. Perché la dignità dei corpi perinatali è la misura più onesta della nostra democrazia.
Ci vediamo sabato prossimo.
Sempre qui, sempre senza risposte facili.
V.
