Bentrovati a tuttə,
questa settimana l’Europa ci ha ricordato che una comunità europea esiste davvero, nel quotidiano delle vite delle persone: la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha stabilito che gli Stati membri debbano riconoscere i matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti altrove nell’Unione.
È una pronuncia importante.
Per tante coppie LGBTQIA+ italiane significa: non più “sposati all’estero, conviventi qua”, ma “matrimonio riconosciuto anche a casa”, con tutti i diritti e obblighi civili e sociali che ne seguono. Un passo che, se attuato, può ricucire il gap tra una vita vissuta e una burocrazia ostile.
SPOILER non sta accadendo in Italia.
Perché qui da noi sappiamo che la sentenza non basta da sola. Non basta ripagare con una firma quello che decenni di esclusione hanno cancellato: relazioni, figli, servizi, diritti di cura. E lo sappiamo, lo sentiamo, lo viviamo ogni giorno.
Famiglie reali, diritti negati
Penso a quelle coppie, a quelle madri, a quei padri, a quei genitori: ogni volta che si rivolgono a uno sportello, a una scuola, a un consultorio, devono ricominciare da zero. Dimostrare di essere “legittimi”. Spiegare che l’amore non ha genere, che un figlio non è un test genetico, che la famiglia non è un luogo statico e predeterminato.
Chi abita queste famiglie, sopratutto negli ultimi tempi ha consapevolezza di quanto pesi l’incertezza. E sa quanto la sentenza europea sia solo un tappabuchi per oggi: le leggi italiane restano ferme, immobili, il riconoscimento resta disomogeneo, il percorso resta ostacolato. Come quando si chiude un occhio su una parte della vita, e poi si chiedono prove: reddito, esistenza stabile, “idoneità” parentale.
Lo Stato italiano non ha mai avuto una menzione d’onore in questo.
Ogni conquista – ogni trascrizione, ogni atto di riconoscimento – è stata frutto di battaglie individuali ma anche collettive, di forza, di resilienza, di ostinazione. E anche oggi, sul piano legislativo, siamo in attesa: una legge di riforma della famiglia? Un matrimonio egualitario? Qualcosa?
La politica italiana alla prova
Chi ignora la pronuncia della CGUE ancora una volta fa “pagare” alle famiglie, ai bambini posizioni ideologiche. Perché ciò che si decide in Europa non è una questione da salotto, ma un principio di dignità: la libertà di costruire legami, di essere riconosciuti, di vivere senza ombre sui documenti.
Appare evidente da qui come la battaglia non sia solo legale, ma culturale. Uno Stato facente parte della comunità europea sarebbe necessario si dotasse (già in ritardo rispetto agli altri paesi) di normative, servizi, tutele reali. Sarebbe necessario smettere di considerare i corpi LGBTQIA+ come eccezioni da trattare con permessi speciali, ma come cittadini.
Se l’Italia sceglie di non adeguarsi, significa che preferisce restare campione di esclusione. Questo vuol dire che per certe famiglie, la democrazia continuerà a essere un optional. E che ogni volta sarà necessario rifare certificati, ricostruire storie, giustificare esistenze, saranno ancora privati di diritti fondamentali.
Perché ci riguarda tuttə
Quando parliamo di diritti delle famiglie LGBTQIA+, non stiamo chiedendo “privilegi”. Chiediamo uguaglianza. Chiediamo che lo Stato non discrimini, che non traduca la differenza in condanna, che non faccia del riconoscimento un gioco a ostacoli.
E chiediamo anche che ciascunə di noi – con la voce, con la presenza, con la richiesta quotidiana – contribuisca a cambiare il senso comune: perché la famiglia non sia definita da modelli imposti, ma da amore, cura, responsabilità.
La sentenza della CGUE può essere un’occasione. Ma non è una soluzione.
La soluzione vera si costruisce ogni giorno, nelle pratiche, nei servizi, nei corpi che resistono.
E nella politica che finalmente avrà il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: non eccezioni.
Il coraggio di riconoscere famiglie dove c’è già l’amore, dove ci si organizza la settimana per capire chi porta chi e dove, dove si preparano le colazioni la mattina, dove adesso, forse, qualcuno sta tirando fuori un albero di Natale.
Ci vediamo sabato.
Doc