Questa settimana, mentre scorrevano le dichiarazioni politiche che promettono “ordine”, “valori” e altre parole che di solito entrano in scena quando qualcuno sta per togliere qualcosa a qualcun altro, mi è tornata addosso una sensazione antica: la precarietà del progresso.
Le conquiste civili sono come le piante grasse: tutti credono che vivano da sole, ma poi basta dimenticarle due settimane sul davanzale e si sbriciolano. L’idea che un diritto, una volta scritto, sia eterno, è una fantasia rassicurante che funziona solo quando non la si mette alla prova.
E invece ogni giorno ci ricordano che ciò che è stato guadagnato può essere disfatto con leggerezza, a colpi di conferenze stampa e decreti annunciati alle 19.04, l’ora perfetta per non far capire niente a nessuno.
Questa settimana è andata così: discussioni infuocate, toni paternalistici, e l’ennesimo tentativo di presentare l’Italia come un Paese che “torna ai classici”.
Spoiler: quando qualcuno tira fuori i bambini in politica non lo fa mai per proteggerli davvero, ma per “proteggerli” da ciò che potrebbero imparare.
La reversibilità del progresso (ovvero: la legge di gravità dei diritti)
C’è un principio che nessun manuale di diritto ammette, ma tutti purtroppo conosciamo:
ogni conquista è reversibile fino a prova contraria.
E la prova contraria siamo noi. Non le norme, non le riforme, non i proclami sulla “modernità”: noi, come comunità politica e comunità affettiva.
Un diritto non si difende da sé perché non è un oggetto: è una pratica. Vive nella cultura, nella sensibilità, nelle scelte quotidiane. Muore quando smette di essere abitudinario, quando nessuno lo nomina più, quando smettiamo di percepirlo come necessario.
È l’usura dell’indifferenza a cancellare prima della legge.
Trasmettere vigilanza: educare alla complessità senza terrorizzare nessuno (davvero?)
Le nuove generazioni non hanno bisogno di eroi, ma di testimoni: persone che dicano la verità sulle cose, anche quando è scomoda. Che mostrino che la democrazia non è un’abitudine, ma un’abilità che si allena. Che facciano vedere i diritti come strumenti quotidiani, non come trofei lontani, impolverati.
Spesso mi chiedono: “Ma i bambini non sono troppo piccoli per parlare di queste cose?”.
I bambini percepiscono il mondo che hanno attorno e hanno bisogno di spiegazioni, contesto, cura, a contenimento.
Non sono loro il problema: siamo noi che abbiamo paura delle loro domande.
Trasmettere vigilanza non significa caricarli del peso del mondo, ma dar loro le parole per attraversarlo, per conoscerlo, per capirlo. Significa insegnare che si può dissentire, che si può difendere chi è più fragile di noi, che la libertà è preziosa ma costa fatica. Ma è preziosa.
Il personale è politico (anche quando vorremmo solo stare in pigiama)
Io lo vedo ogni giorno succedere sul divano del mio studio: ciò che accade nelle case, nelle relazioni, nei corpi, è profondamente politico. Non perché “tutto è politica” in senso generico e vuoto, ma perché le scelte istituzionali entrano nei nostri spazi privati come ospiti maleducati: senza bussare e con l’aria di sapere cosa è meglio per noi ad esempio.
Quando una famiglia non trova riconoscimento giuridico, il politico diventa immediatamente personale.
Quando una donna non ha accesso ai servizi di salute riproduttiva, il politico le si siede accanto al letto.
E la politica, anche quella internazionale non solo la nostrana ultimamente sembra affermare che alcune vite sono negoziabili, altre devono dimostrare ogni giorno di meritare spazio.
Ecco perché il personale è politico: perché la politica decide quanto spazio hai per vivere la tua vita.
La domanda che rimane
E allora, se le conquiste civili non riposano, chi dovrebbe farlo? Noi no, evidentemente.
Ma non in un senso eroico — non serve essere sulle barricate ogni giorno.
Serve una postura politica quotidiana, fatta di attenzione, di memoria, di cura.
Di ironia, quando serve respirare.
E di determinazione, quando cercano di convincerci che “non cambia niente”.
Perché cambia sempre. La domanda è: in che direzione? E soprattutto: chi lo decide, se non lo decidiamo noi?
Ci vediamo sabato prossimo.
Sempre qui, sempre senza risposte facili.
Doc.