Educare al “noi”

L’altra mattina mi sono sorpresa a riflettere su una frase che mal tollero e che sento ripetere spesso in questo periodo: “Non è il momento di politicizzare i bambini”. Sarebbe un ottimo slogan da campeggio, se non fosse che – nella pratica – bambini e bambine politici lo sono già, volenti o nolenti, perché vivono in un mondo dove le decisioni di chi ha potere entrano nel loro stomaco molto prima che nella loro testa.

Li vedo nei miei pazienti, nei figli degli amici, nei figli, nelle conversazioni nei parchi, nello spogliatoio di piscina o fuori dalla palestra: percepiscono tensioni, paure, conflitti.

Percepire non significa capire, ma sicuramente sentire, anzi assorbire. 

Sentono e assorbono quando le persone che sono loro attorno sono arrabbiate, tristi, preoccupate. Quando parlano di “sicurezza” e “valori”, loro tradurranno queste parole in sensazioni: “vuoi che mi senta al sicuro?” oppure “vuoi che io mi senta pericoloso?”.

E qui torniamo ad un modo per me centrale della psicologia perinatale: l’empatia. 

L’empatia non è neutrale. Non lo è mai stata. Né trovo giusto che lo sia. 

È semplice sentimentalismo pensare che “basta voler bene e tutti saranno felici”. Non funziona così. 

L’empatia prende posizione: sceglie di mettere chi soffre al centro, non perché sia più simpatico, ma perché è giusto fare spazio alla vulnerabilità umana nella nostra immaginazione politica.

E uno dei punti sta proprio qui, in questo scenario di immaginazione politica.

Perché non esiste società che si definisca civile se non coltiva la capacità di vedere anche chi non fa rumore, chi non ha un megafono, chi non ha la forza – o il privilegio – di gridare.

L’empatia è un sentimento nobile che oggi è più simile a una postura: mi sposto, faccio spazio, allargo il campo visivo. E, nel farlo, accetto di non essere sempre al centro del quadro.

È una capacità politica perché obbliga a prendere una posizione: quella di chi sceglie di guardare dove altri distolgono lo sguardo. E sì, è scomodo.

Niente comfort zone. 

È molto più facile farsi trascinare dalla retorica dell’“equidistanza”, quella che somiglia tanto a quando da piccoli ci dicevano che “la verità sta sempre nel mezzo”. Nein. 

A volte la verità non sta affatto nel mezzo: sta dove c’è qualcuno che sta perdendo diritti, o dignità, o voce. E il mezzo non è altro che un luogo comodo da cui non si vede niente. 

Ecco: l’empatia che mette al centro chi soffre è proprio quella che riconosce che i fiori sociali nascono nelle crepe, non nei salotti perfetti del dibattito politico.

Nel mondo reale, l’empatia non neutrale è una specie di sismografo: sente le scosse prima degli altri.

Sente quando una libertà viene tolta “solo per stavolta”, quando un diritto viene eroso “per il bene comune”, quando una categoria viene raccontata come “problema” invece che come persone.

Sente l’onda lunga del linguaggio, quella che parte da una parola sbagliata e arriva, mesi dopo, a una discriminazione normalizzata.

E allora l’empatia che prende posizione diventa un atto di insubordinazione emotiva:

non ti limiti a percepire il dolore dell’altro, decidi che quel dolore merita un posto nella tua mappa del mondo, e che da quella mappa derivano scelte, voti, alleanze, conversazioni e – se capita – anche litigi a pranzo la domenica (io qualcuno della me adolescente ancora me lo ricordo). 

Perché se l’empatia non è anche politica, rimane un sentimento senza potere trasformativo.

E io, di sentimenti senza potere, onestamente, ne ho già abbastanza nel cassetto delle buone intenzioni.

L’empatia che prende posizione si impara nelle storie, nelle parole che scegliamo di leggere, nei codici che usiamo per nominare le persone: non “il migrante”, non “l’attivista problematico”, ma esseri umani con diritti, con paure, con desideri. Senza questo cambio di linguaggio, i diritti non sono che formule ornamentali in un discorso burocratico”.

Io penso che uno dei punti sul quale dobbiamo ritarare le nostre riflessioni sia proprio da cosa proteggiamo i bambini, perché di tanti reel che parlano di sovraesposizione digitale (problema importantissimo) molto pochi parlano della politica che li attraversa ogni giorno.

La politica che attraversa la scuola, la famiglia, i messaggi che ricevono dai media, le leggi che regolano ciò che è permesso dire e ciò che è sospetto. 

L’educazione all’empatia è un lavoro di esercizio quotidiano, sfiancantissimo.

I diritti che non riposano si alimentano di memoria, azione e consapevolezza.

E le generazioni che vengono dopo di noi impareranno a condividere gli spazi, solo se glielo faremo sperimentare. Se noi avremo il coraggio di nominare ciò che conta, anche quando fa male, anche quando qualcuno ti dice che “non è il momento”.

Perché il momento è sempre ora.

E il personale è sempre politico — soprattutto quando ci riguarda da vicino.

Ci vediamo sabato,

Doc.