Privato, ma per chi?

Ogni tanto l’Europa fa una cosa che non ti aspetti: ascolta.

È successo con My Voice, My Choice, che ha vinto (qui un approfondimento del manifesto).

E improvvisamente quella frase che ripetiamo da (sempre?) — “il corpo è mio” — smette di sembrare uno slogan stanco e torna a essere quello che è sempre stata: una questione politica, prima ancora che privata.

Perché possiamo dircelo senza girarci intorno: l’aborto non è mai stato solo una faccenda individuale. (E gli anti-abortisti lo sanno meglio di chiunque altro.)

Non lo è per le leggi che lo regolano, per i consultori che chiudono, per l’obiezione di coscienza usata come clava morale. 

Non lo è per il linguaggio pubblico che continua a trattare il corpo delle donne come una trincea su cui tutti hanno diritto di parola, tranne chi quel corpo lo abita (Atwood mi senti?). 

Quando una donna sceglie se portare avanti o no una gravidanza, non sta facendo una scelta “intima” nel senso romantico del termine. Sta prendendo una decisione dentro un sistema fatto di possibilità, privilegi, risorse o muri e ostacoli.

E i muri non crescono spontaneamente: qualcuno li costruisce. Giorno dopo giorno, sopratutto molto, moltissimo in silenzio. 

La vittoria di My Voice, My Choice è importante non perché “risolve” — non risolve nulla, non illudiamoci — ma perché ribadisce a gran voce in tono chiaro una cosa semplice e rivoluzionaria insieme:la voce delle donne conta, anche quando parla di corpi, sangue, paura, ambivalenza, desiderio di non diventare madri.

Conta soprattutto lì.

E in Italia cosa cambia? In Italia abbiamo lo stesso copione di sempre.

Si dice: la legge c’è. Nessuno l’ha cancellata. 

Poi si dice: non esageriamo. E infine si aggiunge: ma nessuno vuole tornare indietro!!

E intanto si torna indietro un centimetro alla volta, con grande educazione e nessuna dichiarazione ufficiale.

Perché il punto non è se l’aborto sia legale (ci mancherebbe altro nel 2025) uno dei punti della questione è se sia praticabile, accessibile, non colpevolizzante. Realisticamente una possibilità sul tavolo di ciascuna donna. 

Mi spiego meglio: una ragazza di vent’anni, o una donna di quaranta, o una madre già stanca, può oggi in qualsiasi punto d’Italia abitare il dubbio dell’aborto, attraversare quella domanda, prendere quella scelta senza essere trattata come un problema morale? Mi riferisco sia alle donne che decidono poi ad abortire che a quelle che portano avanti difficilissime gravidanze indesiderate. 

Il corpo delle donne è sempre stato un territorio politico molto frequentato, spesso da tanti maschi. E/o da molte donne imbevute di patriarcato.

Ci si entra per “difenderlo”. Per “proteggerlo”.

Per “salvarlo”.

Raramente per ascoltarlo davvero.

Si scrive, si parla tantissimo di vita, pochissimo di vite. Quelle reali. Quelle che non entrano nei manifesti.

Quelle fatte di stipendi bassi, relazioni violente, salute mentale fragile, assenza di servizi, solitudine.

Dire “è una scelta privata” è un modo elegante per lavarsene le mani. Troppe volte ho sentito dire alle mie pazienti di esser state accusate di “se fai sesso senza protezioni ma che pretendi”. 

Perdendo di vista che scegliere se abortire o no non è mai una scelta astratta.

È una decisione che si incastra con tutto il resto: desiderio, relazioni, lavoro, casa, rete familiare, accesso alle cure, futuro percepito, figli già presenti nelle famiglie, magari numerosi, magari piccoli, magari disabili. 

My Voice, My Choice vince perché rimette il corpo nel suo posto giusto: al centro.

Non come simbolo. Non come bandiera.

Come esperienza incarnata.

Viviamo in un tempo che tollera tutto, tranne la possibile ambivalenza femminile.

Una donna dovrebbe essere sempre certa: madre o non madre, forte o fragile, grata o colpevole.

Mai complessa. Mai contraddittoria. Mai politica.

E invece il corpo è politico proprio perché è contraddittorio. Perché sanguina. Perché cambia.

Perché a volte dice sì e a volte dice basta. 

Pensiamo al consenso, quanto ci battiamo ogni santo giorno per dire che se una donna ha detto sì, può sempre dire no se a un certo punto non se la sente. 

Sulla generatività no, bisogna essere bianchi o neri.

Trasmettere questo alle nuove generazioni è forse una delle sfide più grandi.

Dire alle ragazze che non devono giustificarsi. Continuare a dire ai giovani, ai bambini che il consenso non è un dettaglio.

Dire a tuttə che i diritti non sono concessioni morali, ma argini contro l’arbitrio.

E magari insegnare anche che non c’è nulla di neutro nel decidere chi può scegliere e chi no.

Che ogni volta che si limita l’autonomia di un corpo, si sta facendo politica. Solo che non la si vuole chiamare così.

La vittoria europea non è un punto di arrivo, possiamo usarlo come promemoria.

Ci vediamo sabato prossimo.

Sempre qui, sempre senza risposte facili.