Non è una festa, è una consegna

Bentrovati su #civediamosabato, 

che oggi arriva di venerdì perché quest’anniversario è più importante di qualsiasi scadenza.

Come ogni 25 Aprile, arriva qualcuno a dirci che “ormai il 25 aprile non serve più”

Che è roba vecchia, divisiva, ideologica. 

Che bisogna “superare”, “riconciliare”, “guardare avanti”; che “non bisogna più parlare di fascisti e partigiani”, che “la libertà è di tuttə” – possibilmente senza dire chi ce l’ha consegnata.

Ecco, credo che proprio per questo oggi il 25 aprile serva più che mai.

Necessario perché viviamo in un paese dove un ministro ha chiesto di festeggiare con “sobrietà” (?) il 25 Aprile, come segno di rispetto in considerazione del lutto nazionale per la morte di Papa Francesco. 

Serve perché ci sono persone che ancora oggi — si assolutamente ancora oggi — muoiono di antifascismo: nei porti, ai confini, nei CPR, nei femminicidi, nelle carceri. Serve perché la libertà, quella vera, non è mai data una volta per tutte.

Il 25 aprile non è una ricorrenza. È una consegna. È un testamento che ci è stato lasciato e che dobbiamo avere il coraggio di onorare.

E non onoriamo i partigiani solo mettendo una bandiera alla finestra (ma comunque facciamolo!), o andando a un corteo (ma sfiliamo!), o cantando Bella Ciao (sempre sia cantata!).

Onoriamo i partigiani quando riconosciamo che il fascismo non è solo un passato remoto, ma una tentazione sempre presente. 

È l’autoritarismo che avanza nelle istituzioni. È l’odio razziale sdoganato nei talk show. 

È la normalizzazione della violenza di Stato. 

È l’attacco continuo alla libertà delle donne di scegliere, decidere, esistere.

Essere antifascisti oggi significa abitare i luoghi con un senso di comunità e appartenenza, sorellanza e mutuo aiuto. 

Significa difendere chi viene cacciato dalle case popolari, chi viene lasciato per strada senza reddito né futuro, chi subisce la guerra e viene trattato come un nemico solo perché è vivo.

Significa difendere la scuola pubblica, la sanità pubblica, i consultori, i diritti civili, le parole.

Significa non confondere la pace con il silenzio. Perché i partigiani non erano pacifici: erano pacificatori

Lottavano per costruire la pace, non per galleggiare nella quiete. E la libertà per cui hanno dato la vita non era quella individualista del “faccio come mi pare”, ma quella collettiva del “nessunə resti indietro”.

Il 25 aprile è anche il giorno della memoria delle donne partigiane. Quelle che non sono finite sui francobolli, che spesso non hanno avuto funerali di Stato, che hanno pagato con il corpo, con la fame, con l’invisibilità. E anche questo, oggi, è un dovere: ricordarle, nominarle, raccontarle. Perché la libertà che viviamo (e che troppe persone ancora non vivono) è anche figlia delle staffette, delle madri, delle giovani con la pistola nella borsa e il coraggio negli occhi.

E allora sì, ogni 25 aprile dobbiamo festeggiare, ballare, abbracciarci, ma anche sfilare e far vibrare le nostre piazze, i nostri palchi. Con orgogliosa ostinazione, con gioia, con rabbia lucida. 

Dobbiamo raccontare ai nostri figli, ai nostri studenti, a chi cresce in un Paese sempre più disorientato, che quella festa non è un dettaglio storico: è l’ossatura della democrazia. È la radice di tutto ciò che abbiamo conquistato — e che può essere tolto, pezzo dopo pezzo.

I partigiani ci hanno insegnato che non basta indignarsi. 

Ma che è necessario prendere posizione, scegliere da che parte stare, anche quando costa. 

Che è importante e necessario disobbedire, se serve. Prendersi cura. Costruire reti. Proteggere chi è vulnerabile.

Dissentire, anche (sopratutto) a voce alta.

La libertà è un bene comune, ma anche una responsabilità personale. 

E ogni 25 aprile ci ricorda che non possiamo essere neutri. Ogni 25 Aprile ci ricorda che ogni giorno è 25 Aprile e che se è divisivo è perché sei fascista. 

Buon 25 Aprile,

Ci vediamo sabato prossimo. Sempre qui, sempre senza risposte facili.

Doc 

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