Genocidio Live

Bentrovati su #civediamosabato, 

ci sono immagini che arrivano senza bussare, che ci attraversano prima ancora di sapere come le abbiamo incontrate. Bambini insanguinati. Madri che scavano a mani nude. Corpi coperti da un lenzuolo improvvisato. Storie che si infilano tra un carosello su Instagram e una pubblicità per il cambio armadio. E poi restano lì. Fisse.

Come afferma saggiamente Byung-Chulhan in “La società senza dolore” “Il dolore è un complesso costrutto sociale. La sua presenza e il suo impatto sulla società dipendono anche dalle forme di dominio.”

Sono mesi che la guerra a Gaza ci entra nei telefoni. Mesi in cui assistiamo a un genocidio trasmesso in alta definizione, da più angolazioni, con audio originale. Ma a forza di vederlo, qualcosa in noi si rompe o si anestetizza. 

Perché nessun corpo regge il dolore di sapere. E così, nel tentativo di difenderci, ci chiudiamo. Razionalizziamo. Neghiamo.

Eppure è tutto lì.

Il conflitto israelo-palestinese non è più solo un fatto geopolitico distante, confinato nelle mappe del Medio Oriente. È un fatto che ci riguarda. Perché la guerra non è mai altrove quando la porti in tasca. Perché quei video che scorrono sui feed non sono fiction, sono il racconto minuto per minuto di una popolazione – quella palestinese – sottoposta a un’oppressione sistematica e a una violenza che ha un solo nome: genocidio.

Sì, è importante dirlo. Genocidio. Non “escalation”. Non “equilibrio delicato”. Non “conflitto tra due parti”. Genocidio è la parola corretta quando un popolo viene isolato, affamato, bombardato, cancellato. Quando la distruzione di una cultura, di una vita collettiva, di una dignità, diventa sistemica e giustificata.

Ma usare questa parola ci espone. E allora la evitiamo. Proprio come evitiamo lo sguardo su quelle immagini. Proprio come cerchiamo di convincerci che “non possiamo farci niente”. Così il diniego si trasforma nella nostra forma più comune di autoprotezione.

Ma a che prezzo?

Quello che vediamo – o cerchiamo di non vedere – ci cambia. Entra nelle sedute, nei sogni, nei discorsi che facciamo con i nostri figli, nei silenzi che scambiamo a tavola. Soprattutto i più giovani stanno vivendo un impatto psichico profondo: un’angoscia difficile da nominare, che attraversa i confini del trauma secondario e si sedimenta nell’anima.

Perché non è normale vedere un bambino morire tra le stories. Non è normale passare da un bombardamento a un haul estivo in 3 swipe. Non è normale sentire di non avere diritto a piangere per qualcosa che non ci tocca “davvero”.

Eppure succede.

E nel frattempo i giovani, che avrebbero bisogno di strumenti per leggere la realtà, si ritrovano a viverla tutta addosso, tutta insieme, senza filtri. E allora si arrabbiano, si confondono, si dividono. In alcuni nasce un’empatia profonda, una vocazione politica. In altri, un rifiuto, una disconnessione emotiva, una chiusura. Entrambe reazioni umane, comprensibili. Ma entrambe lasciano segni.

E intanto, fuori dalle piattaforme, il genocidio continua.

La nostra responsabilità, come adulti, come professionistə, come persone, non è quella di avere la risposta giusta. Ma quella di non girare lo sguardo. Di stare dentro a questo presente complesso, sporco, difficile. Di chiamare le cose con il loro nome. Di sostenere chi cresce dentro questo rumore assordante con parole vere, strumenti critici, spazi sicuri.

Perché, a volte, il problema non è ciò che vediamo. Ma ciò che scegliamo di non sentire.

Ci vediamo sabato prossimo. Sempre qui, sempre senza risposte facili.

Doc 

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