#Civediamovenerdi 4º Appuntamento
Eccoci di nuovo qui. Vieni, accomodati.
E quindi un’altra settimana l’abbiamo “portata a casa”, siamo stati bravi tutti, ce l’abbiamo fatta. Ricordiamoci di dircelo.
È importante riconoscere d’esser stati bravi, è importante farlo durante la tenuta psico-fisica di una pandemia globale.
È importante anche perché tra gli innumerevoli possibili fattori di stress di questo lungo periodo, ce ne sono alcuni che facciamo ancora più fatica ad accettare, perché sono figli dei comportamenti di altre persone, che ci appaiono, nel migliore dei casi, incomprensibili.
Sì, parlo della vasta galassia di comportamenti che ricadono sotto l’etichetta del negazionismo.
Chi sono i negazionisti? Dove sono? Li conosci?
Su Facebook circola il post in cui una biologa (sì, hai letto bene, biologa) che spiega che i negazionisti sono affetti da deficit neurologici che provocano una forma di demenza che riempie i loro discorsi di dittatura sanitaria, mascherine tossiche, 5G.
Dei dementi dunque.
Non è così semplice.
Di complotti e complottisti sono pieni i manuali di storia e una sola cosa hanno TUTTI in comune, il diniego.
Il diniego è un meccanismo di difesa attraverso il quale vengono evitati inconsciamente aspetti spiacevoli e dolorosi della realtà (in questo caso il coronavirus e l’angoscia di morte correlata) mediante l’uso di fantasie (5G, mascherine tossiche, innalzamento della temperatura) che cancellano il dato di realtà (pandemia globale) così doloroso e angoscioso.
[Meccanismo facile, sollievo immediato.]
L’uso del diniego ha l’effetto di alterare il piano di realtà con l’obiettivo di mantenere un equilibrio psichico altrimenti estremamente in pericolo, divenendo in alcuni casi gravemente disadattativo e disfunzionale: l’individuo si trova davanti ad un problema (coronavirus) e al posto di trovare delle soluzioni per risolverlo, lo nega (rifiuta di mettersi la mascherina) e di fatto illusoriamente ”sparisce” dalla sua realtà, ma non dalla realtà collettiva.
La pericolosità di un meccanismo di questo tipo durante una pandemia globale è autoevidente. La frustrazione che i comportamenti figli di questo meccanismo generano nel resto della popolazione sono altrettanto ovvie: le azioni di un negazionista hanno potenziali conseguenze su ognuno di noi.
Per questo ci fanno arrabbiare, ma per questo dovremmo interrogarci su quale sia l’approccio migliore per tentare di incidere su una situazione che, anche se non vorremmo, ci riguarda.
Facile additarli, parlarne come dei poveri scemi, scriverne sferzanti sui nostri social: ma se andiamo poi a vedere l’utlità di queste azioni non possiamo non farci una domanda della quale sappiamo molto bene la risposta. A noi è mai successo di cambiare idea su qualcosa di importante perché qualcuno ci offendeva per come la pensavamo?
Esatto.
Qual è il nostro obiettivo? Sfogarci o tentare di cambiare quello che ci fa arrabbiare?
Molto più faticoso, ma doveroso, e in ultima misura forse utile, è comprendere questo tipo di comportamenti e cercare di non giudicare troppo in fretta in quale modo l’altro si difenda da angosce primordiali.
La domanda che pongo io è: com’è stato possibile?
Quando è capitato che il metodo scientifico si sia distanziato al punto che le persone possano aver paura della scienza al punto da difendersene?
Penso ai No-Vax, alle schiere di genitori spaventati e terrorizzati dalla possibilità (piccola, infinitamente piccola, minuscola ma reale) che un vaccino provochi le famose “reazioni avverse” irreversibili.
Sono stati giudicati, arginati, mai davvero ascoltati. Non ci si è mai davvero chiesti perché la medicina sia così lontana dalle persone. Perché il discorso medico sia così diverso da come dovrebbe essere.
In tempi come quelli di una pandemia globale non servono medici in televisione h24 che parlano di come la curva sale, scende, si flette e articola. Medici che paventano e spaventano terze, quarte, quinte ondate.
Serve che i medici facciano i medici, che i giornalisti facciano i giornalisti, i divulgatori i divulgatori, e che gli addetti alla comunicazione facciano il loro lavoro nel modo migliore possibile affinché si strutturi una partecipazione e un moto cooperativo della collettività.
Perchè durante una pandemia globale (effettivamente difficile da negare) prendono piede movimenti come quello dei No-Mask?
Non perché siano affetti da qualche forma di demenza (che è solo un altro modo di insultare chi ha molta paura) ma perché culturalmente nessuno di noi è pronto a sentire ciò che prova (l’angoscia di morte) e ognuno si difende come può, come la sua struttura gli permette di sostenere.
La paura che proviamo noi è la stessa che prova un negazionista, ma allo stesso stimolo corrispondono due risposte diametralmente e drammaticamente opposte.
Quindi cosa possiamo fare noi? Non esiste un discorso che possa fare cambiare idea domani a chi la pensa diversamente da noi, purtroppo. Esiste però un ambiente nel quale i discorsi si sviluppano, i temi si radicano e radicalizzano, e quell’ambiente lo costruisce ognuno di noi ogni giorno con il livello di empatia che decide di avere, con le parole che usa, con il grado di apertura verso l’altro, ma ancora prima con quanto si decide di guardare cosa succede dentro di noi.
Possiamo fermarci a sentire la paura, l’angoscia, l’ansia, i pensieri di morte. Possiamo stare su quello che sentiamo, sulle nostre emozioni senza reprimerle, senza negarle. E poi possiamo parlarne.
Proviamo ripartendo dalla nostra bolla, proviamo a condividere le nostre emozioni, empatizzando con l’altro. Tentiamo di capire cosa ci accade dentro e diamo spazio all’altro di sentire e sentirci.
E stiamo a casa, più che si può.
#Civediamovenerdi,
Doc.
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