#Civediamovenerdi 5º Appuntamento
25 Novembre tutti i giorni, facciamolo davvero però
Accomodati, che oggi forse ci fermiamo un po’ più del solito.
In coda a una settimana che ha visto protagonista, oltre al coronavirus, la retorica sull’uso del corpo delle donne, sui numeri delle denunce e sulle morti per femminicidio, come faccio a non parlarne anche io?
Il caso della maestra di Torino
Ha fatto inorridire buona parte dell’opinione pubblica, ma purtroppo ne stiamo ancora parlando nel 2020; purtroppo ci sono ancora delle “fazioni” su un episodio del genere. Ancora alcuni (molti) ritengono che fosse inopportuno il contenuto di video privati, e non che video privati ancora una volta diventino pubblici.
C’è ancora, purtroppo, tanto, troppo da lavorare.
Quello di Torino è solo un episodio, una goccia in mezzo al mare della violenza.
Ne potremmo citare mille, ma quello che mi preme sottolineare più che l’episodio in sé (che è orribile – e alla donna che ne è vittima va tutta la mia vicinanza) che nel 2020 a parlare di violenza di genere siano capaci in pochi (purtroppo).
In pochi devo dire con estremo rammarico son stati capaci di rispettare la persona vittima di reato nella sua interezza. Mi è dispiaciuto constatare ancora una volta come in questi casi monti la valanga di vittimizzazione secondaria – ovvero quel procedimento per il quale cerchiamo una responsabilità alla vittima.
Quanti si sono ritrovati a parlare della donna e non del reato, ma non perché si è innatamente cattivi, perché per la nostra cultura non è tollerabile l’idea che un uomo VOLONTARIAMENTE possa aver preso e DELIBERATAMENTE fatto del MALE ad una persona, ad una donna; non è tollerabile, dunque appare più facile negarlo (ricordi il diniego di cui parlavamo nello scorso appuntamento? Ecco) e si sposta l’attenzione su di lei, cercando colpe e responsabilità del tipo “si ma lei com’era vestita?”, “perché se hai un compagno violento non lo lasci?”, “ok, ma lei l’aveva tradito”.
Di fatto aggiungendo violenza a violenza.
Questo accade perché ognuno di noi è cresciuto, si è sviluppato e vive in un contesto sociale in cui le differenze di genere sono uno degli strumenti di “organizzazione della collettività”.
Rendersi conto che parte di quel linguaggio, degli atteggiamenti che si hanno nei confronti delle donne fanno parte del tessuto culturale è faticoso ma responsabile.
Come sempre in questa settimana si sono rincorsi spot, speciali, manifestazioni, programmi tv dedicati al 25 Novembre.
Ho letto molto sul tema e molti miei colleghi ad esempio credono che avere una giornata “dedicata” all’eliminazione della violenza contro le donne sia “limitante”, che una vera parità si ottenga parlando di violenza relazionale. È sicuramente una riflessione interessante, credo però che le giornate “dedicate” (come ad esempio il 01.12) siano degli appuntamenti annuali necessari perché purtroppo di violenza di genere in Italia – ancora – si muore, giorno dopo giorno.
Se mi leggi da un po’ avrai ormai capito che credo fermamente nei cambiamenti che sono in nostro potere.
Cosa posso fare io?
Essere consapevole che puoi partire da te stesso per modificare davvero la cultura di cui fai parte, per migliorare la bolla in cui viviamo. Prendersi la propria responsabilità, mettersi in discussione, riconoscere di avere depositato da qualche parte il seme di una cultura patriarcale.
Da dove parto? Dal linguaggio ad esempio.
Il linguaggio è fondamentale, come lo utilizziamo per comunicare, per esprimerci, per dire chi siamo e cosa proviamo.
Il linguaggio è fondamentale anche quando una cosa non ti piace e la etichetti usando parole dispregiative. O quando chiami la collega “cicciottella”, la virologa “Mamma Scienziata”, commenti i capelli della giornalista, il volto truccato troppo o troppo poco della presentatrice, additi i chili di troppo della Incontrada e dici quel “magnatela una cosa” alla donna che incontri in metro.
Ogni volta che non pesi le parole fai germogliare quel seme.
..
Scenderci a patti è lo snodo più faticoso, sciolto quello abbiamo la possibilità di migliorare chi siamo, chi saremo e il tessuto che abbiamo attorno.
Come si fa?
Un esercizio quotidiano è quello di partire da chi si è, si prende un argomento e ci si chiede ad esempio
Io cosa ne penso davvero? Qual è la prima cosa che mi viene in mente? Posso contribuire in qualche modo modificando/aggiungendo qualcosa a quello che viene detto sull’argomento? Lo direi alla persona vis a vis?
Un esempio pratico dici?
I contenuti di Chiara Ferragni.
Qualche giorno fa ha postato la foto della sua pancia al 6º mese di gravidanza.
Bene. Prova ad andare a leggere i commenti: pieno, pieno, pieno di donne (donne non uomini, donne, probabilmente anche mamme) che scrivono “questa è la mia pancia la sera della vigilia”, “questa sarebbe una pancia”, “ha la pancia solo perché inarca la schiena”, “dov’è la pancia”.
E ancora, ancora, ancora, ancora.
Perché interessa così tanto commentare la grandezza o meno di una pancia in gravidanza? Perché ancora una volta l’immagine del corpo di una donna dev’esser fatta a brandelli? Perché il corpo dell’altro è così al centro della nostra attenzione?
Non ci deve interessare. Non è affar nostro. Non è affare di nessuno. Avere o meno la pancia non rende nessuno più o meno materno, le competenze genitoriali non c’entrano nulla con la grandezza o meno della pancia della mamma in gravidanza.
Basta.
Non è necessario sempre scrivere tutto quello che si pensa, troviamo il coraggio di dire su questo non ho nulla da dire, nulla da aggiungere, non dobbiamo avere per forza un’opinione su tutto.
Possiamo ascoltare ad esempio, potremmo imparare qualcosa.
#Civediamovenerdi,
Doc.
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